Si tratta di un antico vitigno autoctono diffuso nella Vallagarina, al confine tra le province di Trento e Verona, e ha una peculiarità davvero speciale: il modo in cui si moltiplicano le piante!
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Il Presidio Slow Food dell’enantio a piede franco sarà presentato ufficialmente a Terra Madre Salone del Gusto, a Torino dal 22 al 26 settembre: l’appuntamento è in programma sabato 24 presso lo stand di Slow Food Trentino. Parteciperanno i tre i produttori che aderiscono al Presidio: l’azienda agricola Roeno della famiglia Fugatti di Brentino Belluno (Verona), l’azienda agricola Vallarom di Barbara Mottini e Filippo Scienza di Avio (Trento) e l’azienda agricola Lorenzo Bongiovanni di Sabbionara (Trento).
Per parlare del nuovo Presidio Slow Food dell’enantio a piede franco potremmo cominciare dall’inizio, cioè da Plinio il Vecchio e da quella storia che ci riporta indietro di un paio di decine di secoli, o magari dal fondo, cioè dalla vinificazione e dall’imbottigliamento di questo vino che nasce in Vallagarina, tra le province di Trento e Verona. Ma un nome così curioso per un vitigno non lascia spazio a dubbi: meglio partire da lì. Enantio a piede franco, dunque, si riferisce a una varietà di vite – l’enantio, appunto – le cui piante nascono per propaggine – a piede franco – senza essere innestate. Niente barbatelle, insomma: queste piante corrono sul terreno e, con la sapiente mano dei viticoltori, si riproducono.
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Il tralcio della vite che viene piegato e interrato affinché la pianta si propaghi, nella foto di Tommaso Martini
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Le viti hanno i piedi?
A spiegare il sistema della propagazione delle viti è Lorenzo Bongiovanni, referente dei tre produttori che aderiscono al nuovo Presidio Slow Food: «Si prende un tralcio (cioè un ramo giovane, ndr) della pianta, lo si ripiega verso il terreno, lo si interra in una buca per circa 30 centimetri e poi lo si fa riemergere dal suolo per una spanna. Si riempie la buca e si aspetta che il tralcio “spinga” verso l’altro, cioè cresca, mentre dalle gemme sotto terra le radici si propagano». Poi, è solo questione di tempo: «Nel giro di due o tre anni, il tralcio sarà grande e forte, così si procederà a separarlo dalla pianta madre». A proposito di pianta madre: anche lei, cioè la prima a venire piantata in vigna, è autoctona al 100%: «È da più di quarant’anni che non ne faccio, perché non abbiamo più fatto nascere nuovi vigneti ma soltanto propagato quelli esistenti, ma il meccanismo prevede di prendere un tralcio da un’altra pianta di enantio, farla radicare in acqua e poi piantarla. In altre parole, niente portainnesti esterni, nessun materiale vivaistico, ma soltanto il patrimonio genetico della stessa pianta».
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Dopo due o tre anni, le nuove viti sono sufficientemente forti da poter essere separate dalla pianta madre. Foto di Marina Centa
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Parlare di viti a piede franco, però, significa anche fare un tuffo indietro nel tempo lungo almeno centocinquant’anni, a quando cioè l’Europa conobbe a proprie spese la fillossera, la più temibile delle minacce alla viticoltura. L’insetto, importato accidentalmente dal nord America, attaccò le viti di quasi tutta Italia: a fine Ottocento era segnalato in 900 comuni, nel 1931 tutte le province del nostro Paese (a eccezione di Frosinone, Rieti e Napoli) avevano avuto a che fare con questo parassita. La vite, nel giro di mezzo secolo, era sul punto di sparire per sempre. La soluzione fu quella di riprodurre le viti per innesto, cioè unendo un tralcio dotato di gemme, con un piede, o innesto, resistente alla fillossera. La viticoltura, in questo modo, si salvò. Ma che cosa c’entra tutto questo con le viti a piede franco? Prima dell’arrivo della fillossera, gran parte dei vigneti europei si basavano proprio sul metodo della propagazione. Dopo, questo sistema finì nel dimenticatoio un po’ dappertutto.
Questione di terreno
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La propagazione resiste ancora oggi soltanto in pochissime parti d’Italia, aree dove la composizione del suolo, oppure l’altitudine, hanno impedito alla fillossera di proliferare. La Vallagarina, lungo l’asse del fiume Adige tra le province di Trento e di Verona, è uno di questi ambienti: grazie alla struttura sabbiosa-silicea del terreno, l’afide non è riuscito ad attaccare l’apparato radicale di queste vigne e ancora oggi viene quindi coltivato l’enantio.
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«La superficie coltivata a enantio, negli ultimi trent’anni, si è però ridotta moltissimo» spiega Tommaso Martini, referente Slow Food del Presidio. La superficie totale, oggi, è tra i 35 e i 40 ettari, calcolando anche i vigneti appartenenti ad aziende che non aderiscono al Presidio Slow Food. «A valorizzare questo vitigno, a imbottigliare l’enantio proveniente da vigneti a piede franco commercializzandolo con un’etichetta ad hoc – gli fa eco Bongiovanni – siamo rimasti in tre. Gran parte della produzione, invece, viene utilizzata come uva da taglio per altri vini rossi del territorio».
Dall’inizio alla fine: Plinio il Vecchio, l’imbottigliamento e gli anni della lambrusca
«Oltre alla particolarità dovuta al sistema della propaggine, l’enantio vanta anche una storia lunghissima – prosegue Martini –. Già nel primo secolo Plinio Il Vecchio lo citava in uno dei volumi della sua “Naturalis Historia”, scrivendo che “la brusca hoc est vite silvestris, quod vocatur oenanthium”, cioè che “uva lambrusca è la vite selvatica chiamata enantio”».
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Nello scatto di Tommaso Martini, le giovani foglie di una pianta di enantio
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